Il padre Pistelli
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXII, fasc. 250, p. 3
Data: 20 ottobre 1957
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Merita il conto di ricordare la figura di un famoso maestro fiorentino: il padre Ermenegildo Pistelli. Era scolopio, ma uno scolopio che mal si assoggettava alla vita in comune dell'ordine calasanziano. Ottenne, prima un quartierino a parte nel palazzo di Cepperello, dov'erano allora le Scuole Pie, e poi andò addirittura a viver solo e indipendente in una casa di via XX Settembre.
Era un prete grosso e cicciuto, con due labbroni umidi, sempre atteggiati in un'espressione sarcastica. Dicevano ch'era un esperto filologo, un grecista coi fiocchi, ma dopo aver fatto in gioventù l'edizione di un'opericciola di Proclo, non s'era più degnato di dar prove di quella sua ellenica bravura. Dicevano che era un critico sopraffino, ma il suo commento ai Promessi Sposi, tanto atteso, riuscì una povera cosa. Dicevano che da lui sprizzava di continuo un argutissimo spirito, ma non conosco nè ricordo un solo motto felice, una battuta faceta, una definizione epigrammatica.
La sua vita era certo più di mondano che di religioso; andava nei salotti, bazzicava nelle redazioni dei giornali, s'impacciava anche di politica.
Era soprattutto, come dicono a Firenze, uno «sbuccione», uno scansafatiche, un infingardo, forse per quella sua indole scettica che lo disponeva alla dispersione più che al raccoglimento. Scriveva articoli per il Marzocco, con lo pseudonimo di Pier Leon de Gistille, anagramma del suo vero nome, eppoi cominciò a scrivere anche per i bambini, ai quali dedicò il più noto dei suoi libri: Le pistole di Omero. Da ultimo si buttò alla politica, e faceva uno strano effetto veder lui, vecchio ed asmatico, andar cantando Giovinezza nei raduni e nei cortei. Ancora oggi vi sono scuole e strade che portano il suo nome.
Io lo conobbi, ma non ebbi con lui molta dimestichezza perchè mi andava mediocremente a genio la sua natura di buongustaio indolente e orgoglioso. Fece per la mia Cultura dell'Anima una buona traduzione del Protoevangelo di Jacopo e mi aveva promesso, per la stessa collezione, un volumetto su Carneade di donabbondiana memoria. Traduceva bene, con sobrio e sorvegliato gusto, perchè, dopo tutto, era un toscanaccio d'ingegno e sapeva maneggiare il «parlar materno». Andavo qualche volta a fargli visita, di là del Mugnone. Lo trovavo in mezzo a un grande arruffio di libri e di fogli, in maniche di camicia, con un sigaro tra i labbri tumidi, e pronto a mormorare, con la sua voce strascicata e pastosa. di questo e di quello.
Mi provai una volta a mettere il discorso sulla religione ma vidi che volentieri scantonava, passando a parlare delle qualità del greco neo-testamentario, e che l'argomento non era di suo gusto. Ho sempre pensato che egli non avesse potuto districarsi, da giovane, dai legami della vita ecclesiastica, ma che in fondo non fosse quella la sua nativa vocazione, e l'avesse accettata perchè propizia agli otia di uno sfaticato umanista del Cinquecento piovuto per caso in un secolo troppo diverso.
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